L’ULTIMO PENSIERO DI RITA

L’ULTIMO PENSIERO DI RITA

Pubblichiamo qui di seguito e condividiamo nel suo spirito la lettera che Antonella ha scritto dopo la recente e prematura scomparsa della sorella Rita.

Rita è stata nostra paziente per molti anni, i nostri terapisti l’hanno seguita con attenzione, affetto e professionalità per migliorare la qualità della sua vita .

La lettera non vuole essere un grido di vendetta ma un tentativo di sensibilizzare tutti noi all’inclusione anche nel contesto delle strutture ospedaliere, la speranza è quella di risvegliare l’attenzione sulla difficoltà di avere molte più procedure e  formazione sanitaria adeguate rivolte ai pazienti  con disabilità. Lo spirito dello scritto non  “è cercare riparazione alla morte, non c’è mai riparazione né vendetta che colmi il vuoto lasciato da chi se ne è andato, ma soltanto il desiderio di trasformarla in qualcosa di utile per altre persone con i disabilità”.

Rita ci ha lasciati ai primi di settembre… e Antonella, la sorella, ha immaginato questa lettera come ultimo suo ultimo pensiero.

Mi chiamo Rita e sono morta poche settimane fa. Di notte, da sola, stanza 10 letto 24, nono piano. Non doveva andare così. Non dovrebbe mai andare così in realtà. Ma io sono una disabile. Anzi ero, perché si dice che una volta morti si è tutti uguali. E da disabile ho avuto più probabilità di morire di una persona normale.

Ho passato tre lunghi e strazianti mesi in quel letto d’ospedale. Mi dicevano che sarei uscita, che sarei andata in vacanza, a vedere il concerto di Claudio Baglioni a gennaio, a fare shopping e a mangiare una pizza. E invece è andata sempre peggio. Giorno dopo giorno. E nessuno sa esattamente perché.

Ero entrata dal Pronto Soccorso a inizio giugno per calcoli alla cistifellea, mi hanno poi diagnosticato un grosso tumore, anche se a me non l’avevano detto per no spaventarmi… lo chiamavano polipo, che si era esteso anche al fegato. Ed è cominciata così la discesa negli inferi. Finita il 9 settembre.

Se fossi stata una persona “normale” e non una “disabile” probabilmente sarei ancora qui, magari sarei anche andata a mangiare quella pizza, che tanto desideravo. Sarei certo morta comunque… dal tumore, che mi hanno diagnosticato, non ci si salva. Ma ora forse sarei viva. Sono però, anzi ero, una disabile. E gli intoppi sono stati tanti. Il primo e forse anche il più grave, una lesione alle vie biliari in corso di operazione per asportare il tumore. Routine. Ma non sono un medico e non capisco le difficili parolone che usano i medici per spiegare le cose che sono successe.

Ciò che ho capito è che la mia disabilità ha destabilizzato i loro protocolli e i rigidi parametri del personale sanitario, li ha posti di fronte a difficoltà e “reazioni” che probabilmente non conoscevano perché non rientravano nel loro percorso formativo, li ha “spaventati”: la disabilità spaventa sempre, e li ha portati a diagnosi non sempre adeguate alla situazione e a trattamenti non sempre “competenti e mirati”. Ma soprattutto spesso poco empatici. Anche solo “alzarmi” dal letto con l’apposito sollevatore per mettermi in carrozzina ha rappresentato sempre un problema. “C’è poco personale”. E così la fisioterapia, che era stata richiesta per aiutarmi a muovermi, passaggio importantissimo per riprendersi, e che è stata attivata a singhiozzo. “E’ agosto”, mi hanno detto, “anche i fisioterapisti vanno in vacanza”. Per non parlare di quando mi chiudevano la porta della stanza perché mi lamentavo…E cosa mi rimaneva ormai se non lamentarmi?

La mia disabilità è stata il loro più grande scoglio. Ed è per questo che scrivo, non per rivendicare qualcosa o per chiedere una “riparazione” ad un torto subito, ma per “trasformare” la mia storia in un grido di allarme, per richiamare l’attenzione su una grande falla del sistemo sanitario italiano, impreparato a gestire disabili, che si ammalano di malattie “normali”, qualsiasi sia la loro gravità, affinché altri disabili possano “ammalarsi”, come le persone “normali” senza necessariamente dover morire.

Gli strumenti da mettere in campo sarebbero tanti, a partire da quelli finanziari per l’implementazione di corsi di formazione per operatori sanitari riguardo la disabilità e le problematiche ad essa legate: un grande cambiamento culturale da realizzarsi con un forte impegno formativo e di sensibilizzazione degli operatori del settore.

Le comorbidità proprie di alcune disabilità, l’assenza di autonomia e la conseguente necessità di cure e attenzioni costanti e particolari rendono estremamente fragili noi disabili e aumentano il rischio comunque connesso a procedure diagnostiche e soprattutto operatorie.

E’ quello che è successo a me.

E’ stata stilata a tale scopo una Carta dei diritti delle persone disabili in ospedale, che è nata dopo la morte di Tatiana, una disabile come me. Che vi invito a leggere al link che allego: www.quotidianosanita.it/allegati/allegato3049298.pdf

E adesso vi dico addio, senza rabbia e senza rancore.

Io non ci sono più, ma spero che altri disabili come me possano vivere a lungo, ammalarsi ma continuare a vivere. 

Rita Fagà”

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